Abbiamo commesso lo stesso errore
Scritto da Istanbul, il 2020-03-14, genere incesti
Robert (Bob)
Mi addormentai anch’io al suo fianco, cullato da quel senso di relax e appagamento che solamente del sano sesso ti possono garantire. La cosa più elettrizzante consisteva nel fatto che si trattasse di mia figlia. La mia Emma, una 25enne di un metro e settanta, occhi castani e dei bellissimi capelli ondulati del medesimo colore, con balayage biondo. Grande appassionata di fitness e pilates, vantava un posteriore di marmo, al quale difficilmente potevi rimanere indifferente. Insomma, un fisico eccelso, definito dalla testa ai piedi. Trovavo molto attraenti anche quelle estremità piuttosto magre, con le dita affusolate, smaltate, in quel momento, di un marrone scuro. L’abbracciai a cucchiaio, sfruttando al massimo lo spazio ridotto di quel letto singolo, nella stanza che i nonni (i miei genitori) avevano riservato a lei, durante la nostra breve permanenza. La mia stanza era un’altra, naturalmente, ma le circostanze di quella serata avevano fatto sì che il cercarla non rientrasse nelle mie immediate priorità.
Ma torniamo indietro di qualche ora, precisamente alle 8 di sera.
Terminai di prepararmi per uscire. Avrei portato Emma ad un pub che frequentavo da ragazzo, Jackson’s.
Adoravo quel locale fin da teeneger, per due ragioni essenziali: l’ottima varietà di birra ed il fatto di ospitare gruppi che suonavano dal vivo per ben due volte la settimana, il giovedì ed il sabato sera. Nonostante il giorno seguente fosse lavorativo, Jackson’s otteneva un buon afflusso di persone anche il giovedì sera. Il programma della serata, prevedeva l’esibizione di una cover band un po’ insolita, la quale non concentrava il proprio repertorio su un gruppo in particolare, bensì su un era musicale: gli anni 60’-70’. Già mi pregustavo la varietà di proposte, dai Doors ai Beatles, dai Pink Floyd ai Led Zeppelin, o chissà. Era comunque un periodo d’oro della musica, quindi difficilmente mi avrebbero potuto deludere.
Optai per jeans e camicia, con un paio di scarpe sportive tendenti all’elegante, di colore grigio scuro.
Mi diressi verso la stanza di mia figlia, adiacente alla mia. Bussai alla sua porta:
“Emma, ci sei? Posso entrare?” la chiamai.
“Ehm, quasi… vieni, entra pure!” rispose.
Aprii la porta e la vidi seduta sul letto, con le gambe distese in avanti e le piante dei piedi rivolte verso di me. Indossava un vestito estivo corto, color marrone scuro, senza maniche. Era splendida.
“Scusami, mi si sta asciugando lo smalto… poi sono pronta, promesso!” mi disse con un sorriso colpevole.
Non la sentii, tant’ero impietrito da quello che stavo osservando.
Emma
Ero sempre la solita perenne ritardataria. Era più forte di me, non potevo farci nulla. Colpa di quel romanzo. Mi aveva completamente assorbito, per fortuna avevo lasciato il cellulare con la suoneria attiva e quindi avevo potuto sentire il trillo del messaggio arrivato su Whatsapp, altrimenti chissà dover sarei stata, a quest’ora.
Papà, invece, era sempre in anticipo. Avevo parecchio in comune con lui, a livello caratteriale. Eravamo io e lui gli introversi della famiglia, mamma e Dani di certo erano l’opposto. Purtroppo non mi aveva passato il gene della puntualità…ma vabbè, che ci vuoi fare.
Avevo appena finito di dipingermi le unghie di un marrone scuro, perfetto per il mio vestito della medesima tonalità, quando bussò alla mia porta. Mentii dicendo che stavo completando l’asciugatura, il piede sinistro era ancora fradicio.
Lo osservai con occhi dolci, funzionava a volte per ammorbidirlo. Ma in quel momento, mi sembrava assente. Aveva lo sguardo fisso verso di me, sembrava stesse assistendo ad un’apparizione.
“Daddy?! Ci sei?” esclamai, agitando la mano per richiamare la sua attenzione.
“Oi… sì… tesoro, scusami, ero distratto…” mi disse lui lievemente a disagio e con un mezzo sorriso da ebete.
“Lo vedo…che guardavi?” gli chiesi. Mentre lo facevo, strinsi gli occhi e lo fissai con aria interrogativa, probabilmente la stessa che usano i poliziotti, pensai.
“Niente, è che… wow! Sei bellissima, piccola mia!” confesso poi.
Gli sorrisi con relativa convinzione.
“Grazie, Daddy! Anche se me lo dici da sempre, o meglio, da quando ho acquisito la capacità di comprendere quella parola!”
“Mh, forse hai ragione, eri molto più bella da bambina. E soprattutto, non eri così puntigliosa e rompipalle!” mi disse di rimando, con sguardo divertito, quasi a sfidarmi.
Spalancai la bocca e strabuzzai gli occhi, lanciandogli contemporaneamente un cuscino e l’unica infradito che avevo a portata di mano. Quindi fu lui a sbarrare gli occhi. Aveva un’aria giocosa, ma capii che stava per contrattaccare.
“Come osi lanciare oggetti contro tuo padre?!” esclamò, avvicinandosi minacciosamente.
“No, no! Daddy, fermo! Ho lo smalto fresco! Deve asciugarsi!” esclamai senza pensarci. Fu un terribile sbaglio. Gli diedi l’idea perfetta.
“Ah, è così eh?” disse battendosi l’indice sul mento, fingendo di pensare. In realtà aveva già deciso.
Iniziò a farmi un dolce solletico sotto i piedi, facendomi sobbalzare.
“Ahahahahaahaha Daddyyyy! Ti pregoooo!!” strillai, speranzosa di ottenere la sua clemenza.
Non capivo quale forza mentale mi dava la lucidità per permettermi di non scalciare e dimenarmi, cosa che avrebbe compromesso il mio colore fresco sulle unghie. Non solo, avrei rischiato di imbrattare lenzuola, vestito e chissà che altro. Nonostante la tortura, perché di quello si trattava, tenevo le piante ben esposte al mio aguzzino.
Per fortuna il mio daddy mi concesse la tregua dopo meno di un minuto, anche se mi parve un’eternità.
“Daddy sei pazzo!?! Non farlo mai più!!” gli strillai, mentre ansimante, cercavo di ripristinare una normale respirazione.
“Scusami amore mio, ma mi hai servito un calcio di rigore a porta vuota!” rispose, con l’espressione che pareva dire ‘che vuoi farci, non avevo alternative’.
Lo ignorai. Volevo che fosse realmente dispiaciuto. In fondo, avevo passato un minuto d’inferno, tanto lo soffrivo. Sapevo anch’io come colpirlo.
“Ehi, Emma, mi dispiace. Ok?”
Si avvicinò, cercando il mio sguardo.
Io lo osservavo seria, contrariata, infastidita. Finché non riuscii più a trattenermi e gli scoppiai a ridere in faccia.
“Ci sei cascato! Stai invecchiando, caro il mio Bobby” esclamai
“Brutta impertinente!”
“Ben ti sta’!” E sfoggiai un sorriso di soddisfazione.
“Comunque, oramai dovrebbero essere asciutti” proseguii.
Diedi una piccola controllata all’esito del mio lavoro, constatando di poter finalmente indossare i miei sandali col tacco. Erano di un color grigio, la cui trama richiamava un vago stile militare.
Uscimmo di casa alle ore 20.30, scegliendo di percorrere a piedi il tragitto per raggiungere il pub.
Era una tipica serata estiva inglese. Il clima era piacevolissimo, caldo e secco al punto giusto, nulla a che fare con l’afa che avevo lasciato in Italia. Mentre passeggiavo a braccetto con papà, mi voltai in direzione del mare ad osservare un tramonto da olio su tela. Si vedeva il sole fare capolino dietro un gruppetto di nuvole, ed insieme creavano una netta spaccatura nel cielo, azzurro sopra ed arancione sotto. Avevo sempre amato i tramonti sul mare. Passeggiammo per una ventina di minuti, prima di raggiungere il pub preferito di papà. Tornare il quel posto, per lui, significava fare un salto indietro nel tempo. Potevo avvertire la sua emozione osservando il suo sguardo, quando fummo davanti, e notando l’esitazione nel varcarne la soglia. Il locale si presentava esternamente come molti altri tipici pub britannici. La sua posizione ad angolo, univa la Main Street e la King’s Road. L’interno era arredato come da manuale. Un bancone principale accanto all’entrata che proseguiva per circa quattro metri, affiancando parte del corridoio che conduceva al cuore della birreria. Ne percorremmo una parte, prima di accomodarci al tavolo che papà aveva fatto riservare per noi. Ognuno di essi, si trovava sopra un piccolo soppalco, con un’elegante staccionata che fungeva da divisorio tra esso ed il passaggio. Sopra ogni tavolo, vi era raffigurata una scacchiera.
Presi posto su un divanetto di pelle verde scuro. Lui si sedette di fronte a me. Quasi mi commossi nel vedere come si guardava attorno emozionato, sembrava un bimbo al luna park.
“Daddy?!” gli sorrisi.
Lui ricambiò.
“Sai, Emma, ogni volta che ritorno qui è come…”. Si interruppe. Lo vidi cedere al magone di tristezza che da un po’ fremeva per fuoriuscire. Provai molta tenerezza nel vederlo asciugarsi una lacrima che prese a scorrere sul suo viso.
“Ohi, Daddy!” gli dissi con il tono più affettuoso che avevo.
“Scusami, cara… ho tanti bei ricordi qui…”.
Non resistetti. Mi alzai e lo strinsi più che potei in un forte abbraccio.
“Ti voglio bene!” gli dissi.
Bob
Quell’abbraccio tanto improvviso ed inaspettato quanto meraviglioso, vinse la mia resistenza. Ebbi una breve e silenziosa crisi di un pianto colmo di nostalgia, al rivangare quello sciame impazzito di ricordi legati a Jackson’s. Mi vennero in mente un sacco di esempi di locali divenuti veri e proprio punti di riferimento per gruppi di amici, nelle sitcom più famose: dal “Central Perk” di FRIENDS al “MacLaren’s” di HOW I MET YOUR MOTHER, fino alla più italica “Bottiglieria Cesaroni” dell’omonima serie tv. Per me era Jackson’s. Le prime sbornie, le prime cotte, le prime uscite con i ragazzi del quartiere.
Emma era in piedi accanto a me e mi stringeva a sé. Avevo la testa poggiata all’altezza del suo seno, all’incirca di misura quarta. Era mia figlia, ma ero sempre e comunque un uomo. Un uomo che sapeva eccitarsi per un bel paio di tette, e quelle di Emma lo erano di certo. Mi sentii un verme nel partorire quei pensieri inopportuni. Insomma, lei stava lì per me, ad abbracciarmi, a farmi sentire il suo affetto, mentre io mi focalizzavo sul suo corpo e le sue forme eccezionali. Che materialista!
Soppressi questa sensazione ed alzai lo sguardo verso di lei. Gli occhi le brillavano d’amore. Sì, percepivo proprio questo dal suo sguardo, dalla sua espressione. Ci guardammo per alcuni secondi, finché riuscii finalmente a risponderle: “Ti voglio bene anch’io, luce dei miei occhi!”
Ci demmo un fugace bacio sulle labbra. Era capitato, di rado, quand’era piccola, anche con la madre, ma quella circostanza era totalmente diversa. Un’atmosfera imbarazzante si creò attorno a noi, tanto da sovrastare la musica assordante della band (che nel frattempo aveva iniziato con un pezzo dei Beach Boys).
Con un fugace movimento, Emma tornò a sedersi al suo posto. La rapidità del suo dietro front, esprimeva perfettamente il suo imbarazzo, coadiuvato dal suo sguardo sfuggente. Da parte mia, vi era l’intenzione di esprimermi, ma altro non feci che socchiudere la bocca, senza emettere una sillaba.
“Un giro gratis, ragazzi? Offre la casa!” esclamò un cameriere, palesatosi improvvisamente accanto al nostro tavolo. Per i primi 2-3 secondi, lo guardai con l’espressione ancora smarrita, quindi mi lanciai sul vassoio e presi un bicchierino di quello che sembrava uno shottino di una vodka alla frutta. Emma mi imitò e, con lo stesso impeto, lo rovesciammo in gola. Sembravamo dei disperati fuggiti attraverso il deserto.
Casey strabuzzò gli occhi nel vedere tanta foga. Casey, involontario salvatore. Il suo arrivo inaspettato ci aveva salvato da una bizzarra situazione. Dentro di me, ringraziai Casey. Sei un grande, pensai.
“Avevate sete eh, ragazzi?!” affermò con un’espressione tra lo stupito ed il divertito. E proseguì con il suo giro ai tavoli. Mi girai verso Emma nel medesimo istante in cui lei si voltò a guardarmi. Infine, scoppiammo a ridere. Fondamentale fu la spinta dell’alcolico assunto a stomaco vuoto, ma non aveva importanza.
“Povero Casey” esclamò lei divertita “avrà pensato che siamo due pazzi alcolizzati!”
E ci abbracciamo, sciogliendo definitivamente la tensione creatasi poco prima. Grazie, Casey, sei un grande!
Fu così che la nostra serata ripartì alla grande. Ordinammo la cena. Emma optò per un classicissimo Fish&Chips inglese con Weissbier, mentre io scelsi una ben più consistente bistecca di Angus con patate al forno. Per il bere, decisi di affidarmi ad una corposa birra belga di 8°, che pensai potesse ben legare con le calorie del mio piatto.
Ci godemmo il concerto, gustandoci la cena ed apprezzando le varie birre che l’accompagnarono.
Dopo un paio d’ore, eravamo entrambi su di giri, in particolare Emma, che decise di unirsi al discreto gruppetto di persone che presero ad occupare la spazio creatosi di fronte alla band, divenuto pista da ballo.
Declinai il suo invito a seguirla, preferendo rimanere al tavolo ad osservarla ed osservare lo spettacolo.
“Preferisco restare qui con la mia birra” le urlai, nel trambusto generale “e magari a farmi quattro risate guardandoti!”. E le risi in faccia divertito, ottenendo una simpatica gomitata ad un fianco, mentre si allontanò ridendo di me a sua volta.
Non poté scegliere un momento più opportuno per gettarsi nella mischia. La band attaccò con “You never can tell”, mandando in delirio il pubblico e spingendo le improvvisate coppie ballerini ad esibirsi come John Travolta ed Uma Thurman nel celebre “Pulp Fiction”. Stetti ad osservare mia figlia per tutta la durata della canzone, sfoggiando un sorrisetto ebete da padre fiero. O forse era solamente un semplice sorrisetto ebete.
“Non ci posso credere: Bobby?! Sei tu??” esclamò d’un tratto una voce alle mie spalle, in inglese.
“Charlie?! Sei proprio tu, cazzo! Come stai?!” risposi incredulo.
Charlie faceva parte del gruppo di ragazzi che frequentavo da adolescente. Stesso quartiere, stesso giro di persone, pressappoco stessa età. I differenti contesti della vita, ci portarono a prendere strade completamente differenti, o nel mio caso, paesi.
Chiacchierammo davanti ad una birra, l’ennesima della mia serata, rivangando il passato e raccontando il presente.
“…e quindi stasera ho deciso di tornare qui, dopo tanto tempo. Sono con Emma, mia figlia” dissi.
“E dove si trova ora?” chiese.
“Si è buttata in pista! La vedi? Vestitino marrone, cappelli castani…”.
“Penso di sì ma Bob, dovresti guardare anche tu… che cazzo sta facendo quello?” mi disse. Osservai il suo sguardo preoccupato
Mi voltai di scatto. Vidi Emma che tentava di divincolarsi dalla presa di un tizio. Questi la strattonava a sé, tenendola per un braccio. Era ben più grande di lei e sembrava divertirsi nel tormentarla.
La sensazione che provai in quel momento fu difficile da descrivere. Immaginate per un momento che l’afflusso di sangue al cervello si interrompesse, per deviare solamente verso gli arti superiori ed inferiori. Immaginate un improvviso calore a gambe e mani, e supponete di non avere la possibilità di poterle controllare. Fu una questione di pochi secondi. Il mio corpo saltò come una molla impazzita. Con la rapidità di un ghepardo, attraversai il locale e mi gettai letteralmente addosso a quel viscido individuo.
Emma
“Lasciami, stronzo! Mi fai male!” gli urlai, cercando di divincolarmi dalla sua presa. Era forte e parecchio alticcio, a giudicare dalla puzza di birra che mi arrivava ogniqualvolta lo vedevo espirare.
“Avanti, piccola, non fare la difficile!” esclamò, tentando di avvolgermi il braccio al collo. Mi abbassai per evitarlo, rifilandogli al contempo un calcio nel cavo popliteo. Lo sentii emettere un gemito.
“Puttana!” urlò. E mi strattonò nuovamente e con più veemenza. Una fitta di dolore raggiunse la mia scapola. E poi, d’un tratto, più nulla. Ero di nuovo libera. E lui a terra, sotterrato dal corpo di papà, che lo stava colpendo di santa ragione. Vidi un secondo tizio che tentava di fermarlo, chiamandolo per nome.
“Bobby! Basta, lascialo! Sei pazzo?!” gli gridava, invitandolo a rinunciare, che non valeva la pena, diceva. Mi resi conto di dover intervenire.
“Daddy! Daddy, basta, ti scongiuro! Andiamo via, ti prego!”
Mi ero frapposta tra lui e quel maniaco. Dio solo sa quando avrei voluto che gli cambiasse i connotati, ma a che pro? Per finire in guai giudiziari senza fine? No, non sarebbe andata così.
Il bastardo si era alzato nel frattempo. Perdeva sangue dal labbro inferiore, ma non sembrava minimamente provato o pentito. Anzi. Lo vidi rivolgere a mio padre uno sguardo provocatorio.
“Daddy! Ti prego, andiamocene…” lo supplicai nuovamente, con la testa appoggiata al suo petto.
“Ho intenzione di venire qui, domani sera! Se ti vedo ancora ronzare attorno a mia figlia, ti giuro, credi alle mie parole, finirai i tuoi giorni attaccato ad un tubo di plastica!”
“Basta, ho detto!”
E lo spinsi fuori dal locale.
Uscimmo in strada. La temperatura era scesa e l’aria si era fatta più frizzante. Un brivido di freddo mi percorse la schiena. Papà mi adagiò il suo maglioncino attorno alle spalle.
“Grazie…” gli dissi con voce flebile.
Percorremmo a piedi la via del ritorno, ognuno accompagnato dai proprio pensieri.
Mi resi conto di quanto quell’episodio mi avesse scossa, lo percepii maggiormente non appena entrai nella mia stanza, l’adrenalina stava diminuendo, lasciandomi in uno stato di disagio misto ad una lieve ansia.
Tolsi i sandali e mi sedetti sul letto, appoggiandomi alla testiera e raccogliendo le ginocchia. Rimasi lì, in silenzio, fino a quando udii bussare alla mia porta. Era papà. Entrò nella stanza, recando con sé una bottiglia e due bicchieri.
“Stai meglio?” mi chiese.
Annuii, non troppo convinta.
“Mi dispiace per quello che è successo stasera” fece nuovamente. “Quel viscido bastardo! Io… sono mortificato, cucciola mia”.
“Cos’hai lì?” fu la mia risposta, indicando la bottiglia.
“Ah, beh… forse non sarà l’ideale, ma ho pensato che potesse esserti d’aiuto…sì, per allentare la tensione. Lo so, non è il massimo un genitore che invita la figlia a farsi un goccio di questa roba e mi scuso, ma a volte funziona” mi rispose, con un’aria vagamente impacciata.
Bevemmo ben tre bicchieri di quello che scoprii essere un bourbon invecchiato.
“E’ la speciale riserva di tuo nonno. Se scopre che l’ho profanata…” e mi fece il gesto del tagliagole, assumendo una buffa espressione. Sorrisi. Aveva ragione, quei tre drink improvvisati mi avevano distesa. Forse un tantino troppo. Mi resi conto di essere un po’brilla.
“D’accordo, ora è meglio che vada a dormire. Cerca di riposare, piccola”.
“Daddy, aspetta!” esclamai, vedendo che si alzava.
Tornò a sedersi, guardandomi per capire il motivo per cui volevo trattenerlo.
“Grazie per stasera, Daddy!” gli dissi, accarezzandogli dolcemente i capelli. Mi stavo avvicinando a lui, mentre lo facevo. Uno sguardo ai suoi occhi, uno alle sue labbra, socchiuse, quasi in attesa. In attesa. Di che cosa? Forse delle mie? Osai sperare di sì e gliele appoggiai dolcemente alle sue. Ci perdemmo in un timido bacio. Dapprima indeciso, poi più convinto, finché non fu lui a fermarmi.
“No! Emma, scusami, non possiamo. Che stiamo facendo? Non credo sia il caso…”.
Mi lasciò le mani, si alzò e si diresse verso la porta, nonostante la mia delusione. Lo vidi aprire la porta ma fermarsi a metà. Per qualche secondo, rimase fermo a fissare il corridoio.
Fu questione di un attimo. Un attimo in cui lo vidi richiudere la porta e fare dietro front bruscamente, gettandosi tra le mia braccia per baciarmi nuovamente. Era tutta un’altra cosa. Sentivo la passione, il calore del suo corpo, il fervore della sua lingua che senza sosta danzava avvinghiata alla mia. Sembrava quasi che aprire quella porta per pochi istanti, gli avesse permesso di lasciare cadere ogni dubbio, accrescendo la passione che inevitabilmente stava covando da tempo.
“Che stiamo facendo?” mi chiese improvvisamente, tra un bacio e l’altro.
“Stiamo…facendo l’amore Daddy…” risposi.
“Non possiamo… perché? Perché lo stiamo facendo…?”
“Perché… ci amiamo! Io ti amo, Daddy!”
“Anch’io ti amo, cucciola mia!”
Sentii l’eccitazione crescermi dentro. Quelle parole quasi inaspettate, quelle mani forti che mi stringevano, quel sua bocca che prese ad occuparsi del mio collo. Un miriade di sensazioni fortissime, assolute. In breve, mi ritrovai bagnatissima. Speravo ci potessimo spostare ad un livello successivo.
Allungai la mano verso il suo basso ventre, carezzandogli il suo affare. Era rigidissimo. Lo vidi sussultare al mio tocco, al che pensai di continuare al fine di lanciargli ulteriori segnali. Funzionò alla grande. Papà mi sollevò come quando ero una bambina, e come allora, mi mise sulle sue ginocchia. Chiaramente, ora la motivazione era un’altra. Abbassò la zip del mio abito e lo fece volare via, e con esso anche le mie mutandine di pizzo nero. Io feci lo stesso con la sua camicia. Mi acquattai sul pavimento per sfilargli i jeans. Passai poi a boxer neri, usando modi nettamente più accattivanti rispetto al resto. Il suo membro si palesò davanti a me, in tutta la sua rigidità. Senza indugio, lo presi in bocca ed iniziai a succhiarlo con dei movimenti lenti e costanti. Capii di aver centrato la giusta velocità sentendo i versi di approvazione del mio Daddy, il quale, in un momento di estrema libidine, mi ordinò letteralmente di non fermarmi. Poggiò le sue mani sulla mia testa, spingendola con foga verso la sua ‘mazza’ e la cosa mi fece eccitare ancora di più.
Mi fermai in tempo per potermi sedere sopra di lui. Nel momento in cui entrò, un brivido di piacere mi percorse il corpo dalla testa alle dita dei piedi, che da qualche minuto si inarcavano e si stendevano come se non vi fosse un domani. Mi muovevo con decisione, alternando diversi movimenti delle anche, per trovare il giusto ritmo. Rovesciai la testa all’indietro nel percepire la sua bocca sul mio seno, avida dei miei capezzoli, che ricopriva di succhiotti e piccoli morsi. Sapeva decisamente quali corde toccare. Ero in balia di quel godimento quando mi trovai all’istante sdraiata supina sul mio letto. La musica cambiò completamente. Il dolce e ritmico movimento di poco prima, venne sostituito da uno ben più incalzante e violento. E mi piacque molto, ma molto di più. Mi ero resa conto negli anni di avere quella particolare tendenza ad elettrizzarmi sessualmente quando venivo sottomessa, o semplicemente non ero la parte dominante. Incrociai le gambe alla sua schiena e venni, gridando quel tanto che mi era consentito.
Giungemmo assieme all’orgasmo, stringendoci a vicenda nel momento clou, finché, ansimanti e con il cuore a mille, iniziammo la nostra discesa verso un completo assestamento. Ci godemmo quel momento di relax completamente abbracciati. Non passò molto, che il sonno ebbe il sopravvento. Mi addormentai, come da bambina, tra le braccia di papà. Del mio Daddy.
Bob
La suoneria del cellulare mi aveva svegliato all’una. Era Vanessa. Un orario insolito per scrivermi.
Mi ero addormentato con Emma. Avevamo fatto l’amore ed era stato incredibile, estremo, bellissimo. Eticamente inconcepibile, certo, ma in quel frangente non mi ero posto il problema.
Scambiai quale messaggino con mia moglie, augurandole infine la buonanotte.
Fu nel momento in cui riposi il telefono che avvertii un crescente senso di colpa per quel che avevo fatto.
Fu come averla tradita ma ben più grave, perché l’altra donna era…sua figlia, nostra figlia. Erano le mie donne e le amavo entrambe alla follia.
Guardai la mia Emma dormire beatamente. Chissà quali pensieri si alternavano dentro di lei. Mi domandavo cosa provasse. Anche lei si sentiva in colpa? L’avrei svegliata per chiederglielo. Averne avuto la conferma, forse, avrebbe alleviato il mio peso.
Ritenni di doverci dormire sopra. La mattina dopo avremmo parlato, avrei capito il suo punto di vista.
Me ne andai di soppiatto, non prima di averla guardata un’ultima volta.
“Sogni d’oro, angelo mio” le sussurrai, rimboccandole le coperte.
Mi addormentai anch’io al suo fianco, cullato da quel senso di relax e appagamento che solamente del sano sesso ti possono garantire. La cosa più elettrizzante consisteva nel fatto che si trattasse di mia figlia. La mia Emma, una 25enne di un metro e settanta, occhi castani e dei bellissimi capelli ondulati del medesimo colore, con balayage biondo. Grande appassionata di fitness e pilates, vantava un posteriore di marmo, al quale difficilmente potevi rimanere indifferente. Insomma, un fisico eccelso, definito dalla testa ai piedi. Trovavo molto attraenti anche quelle estremità piuttosto magre, con le dita affusolate, smaltate, in quel momento, di un marrone scuro. L’abbracciai a cucchiaio, sfruttando al massimo lo spazio ridotto di quel letto singolo, nella stanza che i nonni (i miei genitori) avevano riservato a lei, durante la nostra breve permanenza. La mia stanza era un’altra, naturalmente, ma le circostanze di quella serata avevano fatto sì che il cercarla non rientrasse nelle mie immediate priorità.
Ma torniamo indietro di qualche ora, precisamente alle 8 di sera.
Terminai di prepararmi per uscire. Avrei portato Emma ad un pub che frequentavo da ragazzo, Jackson’s.
Adoravo quel locale fin da teeneger, per due ragioni essenziali: l’ottima varietà di birra ed il fatto di ospitare gruppi che suonavano dal vivo per ben due volte la settimana, il giovedì ed il sabato sera. Nonostante il giorno seguente fosse lavorativo, Jackson’s otteneva un buon afflusso di persone anche il giovedì sera. Il programma della serata, prevedeva l’esibizione di una cover band un po’ insolita, la quale non concentrava il proprio repertorio su un gruppo in particolare, bensì su un era musicale: gli anni 60’-70’. Già mi pregustavo la varietà di proposte, dai Doors ai Beatles, dai Pink Floyd ai Led Zeppelin, o chissà. Era comunque un periodo d’oro della musica, quindi difficilmente mi avrebbero potuto deludere.
Optai per jeans e camicia, con un paio di scarpe sportive tendenti all’elegante, di colore grigio scuro.
Mi diressi verso la stanza di mia figlia, adiacente alla mia. Bussai alla sua porta:
“Emma, ci sei? Posso entrare?” la chiamai.
“Ehm, quasi… vieni, entra pure!” rispose.
Aprii la porta e la vidi seduta sul letto, con le gambe distese in avanti e le piante dei piedi rivolte verso di me. Indossava un vestito estivo corto, color marrone scuro, senza maniche. Era splendida.
“Scusami, mi si sta asciugando lo smalto… poi sono pronta, promesso!” mi disse con un sorriso colpevole.
Non la sentii, tant’ero impietrito da quello che stavo osservando.
Emma
Ero sempre la solita perenne ritardataria. Era più forte di me, non potevo farci nulla. Colpa di quel romanzo. Mi aveva completamente assorbito, per fortuna avevo lasciato il cellulare con la suoneria attiva e quindi avevo potuto sentire il trillo del messaggio arrivato su Whatsapp, altrimenti chissà dover sarei stata, a quest’ora.
Papà, invece, era sempre in anticipo. Avevo parecchio in comune con lui, a livello caratteriale. Eravamo io e lui gli introversi della famiglia, mamma e Dani di certo erano l’opposto. Purtroppo non mi aveva passato il gene della puntualità…ma vabbè, che ci vuoi fare.
Avevo appena finito di dipingermi le unghie di un marrone scuro, perfetto per il mio vestito della medesima tonalità, quando bussò alla mia porta. Mentii dicendo che stavo completando l’asciugatura, il piede sinistro era ancora fradicio.
Lo osservai con occhi dolci, funzionava a volte per ammorbidirlo. Ma in quel momento, mi sembrava assente. Aveva lo sguardo fisso verso di me, sembrava stesse assistendo ad un’apparizione.
“Daddy?! Ci sei?” esclamai, agitando la mano per richiamare la sua attenzione.
“Oi… sì… tesoro, scusami, ero distratto…” mi disse lui lievemente a disagio e con un mezzo sorriso da ebete.
“Lo vedo…che guardavi?” gli chiesi. Mentre lo facevo, strinsi gli occhi e lo fissai con aria interrogativa, probabilmente la stessa che usano i poliziotti, pensai.
“Niente, è che… wow! Sei bellissima, piccola mia!” confesso poi.
Gli sorrisi con relativa convinzione.
“Grazie, Daddy! Anche se me lo dici da sempre, o meglio, da quando ho acquisito la capacità di comprendere quella parola!”
“Mh, forse hai ragione, eri molto più bella da bambina. E soprattutto, non eri così puntigliosa e rompipalle!” mi disse di rimando, con sguardo divertito, quasi a sfidarmi.
Spalancai la bocca e strabuzzai gli occhi, lanciandogli contemporaneamente un cuscino e l’unica infradito che avevo a portata di mano. Quindi fu lui a sbarrare gli occhi. Aveva un’aria giocosa, ma capii che stava per contrattaccare.
“Come osi lanciare oggetti contro tuo padre?!” esclamò, avvicinandosi minacciosamente.
“No, no! Daddy, fermo! Ho lo smalto fresco! Deve asciugarsi!” esclamai senza pensarci. Fu un terribile sbaglio. Gli diedi l’idea perfetta.
“Ah, è così eh?” disse battendosi l’indice sul mento, fingendo di pensare. In realtà aveva già deciso.
Iniziò a farmi un dolce solletico sotto i piedi, facendomi sobbalzare.
“Ahahahahaahaha Daddyyyy! Ti pregoooo!!” strillai, speranzosa di ottenere la sua clemenza.
Non capivo quale forza mentale mi dava la lucidità per permettermi di non scalciare e dimenarmi, cosa che avrebbe compromesso il mio colore fresco sulle unghie. Non solo, avrei rischiato di imbrattare lenzuola, vestito e chissà che altro. Nonostante la tortura, perché di quello si trattava, tenevo le piante ben esposte al mio aguzzino.
Per fortuna il mio daddy mi concesse la tregua dopo meno di un minuto, anche se mi parve un’eternità.
“Daddy sei pazzo!?! Non farlo mai più!!” gli strillai, mentre ansimante, cercavo di ripristinare una normale respirazione.
“Scusami amore mio, ma mi hai servito un calcio di rigore a porta vuota!” rispose, con l’espressione che pareva dire ‘che vuoi farci, non avevo alternative’.
Lo ignorai. Volevo che fosse realmente dispiaciuto. In fondo, avevo passato un minuto d’inferno, tanto lo soffrivo. Sapevo anch’io come colpirlo.
“Ehi, Emma, mi dispiace. Ok?”
Si avvicinò, cercando il mio sguardo.
Io lo osservavo seria, contrariata, infastidita. Finché non riuscii più a trattenermi e gli scoppiai a ridere in faccia.
“Ci sei cascato! Stai invecchiando, caro il mio Bobby” esclamai
“Brutta impertinente!”
“Ben ti sta’!” E sfoggiai un sorriso di soddisfazione.
“Comunque, oramai dovrebbero essere asciutti” proseguii.
Diedi una piccola controllata all’esito del mio lavoro, constatando di poter finalmente indossare i miei sandali col tacco. Erano di un color grigio, la cui trama richiamava un vago stile militare.
Uscimmo di casa alle ore 20.30, scegliendo di percorrere a piedi il tragitto per raggiungere il pub.
Era una tipica serata estiva inglese. Il clima era piacevolissimo, caldo e secco al punto giusto, nulla a che fare con l’afa che avevo lasciato in Italia. Mentre passeggiavo a braccetto con papà, mi voltai in direzione del mare ad osservare un tramonto da olio su tela. Si vedeva il sole fare capolino dietro un gruppetto di nuvole, ed insieme creavano una netta spaccatura nel cielo, azzurro sopra ed arancione sotto. Avevo sempre amato i tramonti sul mare. Passeggiammo per una ventina di minuti, prima di raggiungere il pub preferito di papà. Tornare il quel posto, per lui, significava fare un salto indietro nel tempo. Potevo avvertire la sua emozione osservando il suo sguardo, quando fummo davanti, e notando l’esitazione nel varcarne la soglia. Il locale si presentava esternamente come molti altri tipici pub britannici. La sua posizione ad angolo, univa la Main Street e la King’s Road. L’interno era arredato come da manuale. Un bancone principale accanto all’entrata che proseguiva per circa quattro metri, affiancando parte del corridoio che conduceva al cuore della birreria. Ne percorremmo una parte, prima di accomodarci al tavolo che papà aveva fatto riservare per noi. Ognuno di essi, si trovava sopra un piccolo soppalco, con un’elegante staccionata che fungeva da divisorio tra esso ed il passaggio. Sopra ogni tavolo, vi era raffigurata una scacchiera.
Presi posto su un divanetto di pelle verde scuro. Lui si sedette di fronte a me. Quasi mi commossi nel vedere come si guardava attorno emozionato, sembrava un bimbo al luna park.
“Daddy?!” gli sorrisi.
Lui ricambiò.
“Sai, Emma, ogni volta che ritorno qui è come…”. Si interruppe. Lo vidi cedere al magone di tristezza che da un po’ fremeva per fuoriuscire. Provai molta tenerezza nel vederlo asciugarsi una lacrima che prese a scorrere sul suo viso.
“Ohi, Daddy!” gli dissi con il tono più affettuoso che avevo.
“Scusami, cara… ho tanti bei ricordi qui…”.
Non resistetti. Mi alzai e lo strinsi più che potei in un forte abbraccio.
“Ti voglio bene!” gli dissi.
Bob
Quell’abbraccio tanto improvviso ed inaspettato quanto meraviglioso, vinse la mia resistenza. Ebbi una breve e silenziosa crisi di un pianto colmo di nostalgia, al rivangare quello sciame impazzito di ricordi legati a Jackson’s. Mi vennero in mente un sacco di esempi di locali divenuti veri e proprio punti di riferimento per gruppi di amici, nelle sitcom più famose: dal “Central Perk” di FRIENDS al “MacLaren’s” di HOW I MET YOUR MOTHER, fino alla più italica “Bottiglieria Cesaroni” dell’omonima serie tv. Per me era Jackson’s. Le prime sbornie, le prime cotte, le prime uscite con i ragazzi del quartiere.
Emma era in piedi accanto a me e mi stringeva a sé. Avevo la testa poggiata all’altezza del suo seno, all’incirca di misura quarta. Era mia figlia, ma ero sempre e comunque un uomo. Un uomo che sapeva eccitarsi per un bel paio di tette, e quelle di Emma lo erano di certo. Mi sentii un verme nel partorire quei pensieri inopportuni. Insomma, lei stava lì per me, ad abbracciarmi, a farmi sentire il suo affetto, mentre io mi focalizzavo sul suo corpo e le sue forme eccezionali. Che materialista!
Soppressi questa sensazione ed alzai lo sguardo verso di lei. Gli occhi le brillavano d’amore. Sì, percepivo proprio questo dal suo sguardo, dalla sua espressione. Ci guardammo per alcuni secondi, finché riuscii finalmente a risponderle: “Ti voglio bene anch’io, luce dei miei occhi!”
Ci demmo un fugace bacio sulle labbra. Era capitato, di rado, quand’era piccola, anche con la madre, ma quella circostanza era totalmente diversa. Un’atmosfera imbarazzante si creò attorno a noi, tanto da sovrastare la musica assordante della band (che nel frattempo aveva iniziato con un pezzo dei Beach Boys).
Con un fugace movimento, Emma tornò a sedersi al suo posto. La rapidità del suo dietro front, esprimeva perfettamente il suo imbarazzo, coadiuvato dal suo sguardo sfuggente. Da parte mia, vi era l’intenzione di esprimermi, ma altro non feci che socchiudere la bocca, senza emettere una sillaba.
“Un giro gratis, ragazzi? Offre la casa!” esclamò un cameriere, palesatosi improvvisamente accanto al nostro tavolo. Per i primi 2-3 secondi, lo guardai con l’espressione ancora smarrita, quindi mi lanciai sul vassoio e presi un bicchierino di quello che sembrava uno shottino di una vodka alla frutta. Emma mi imitò e, con lo stesso impeto, lo rovesciammo in gola. Sembravamo dei disperati fuggiti attraverso il deserto.
Casey strabuzzò gli occhi nel vedere tanta foga. Casey, involontario salvatore. Il suo arrivo inaspettato ci aveva salvato da una bizzarra situazione. Dentro di me, ringraziai Casey. Sei un grande, pensai.
“Avevate sete eh, ragazzi?!” affermò con un’espressione tra lo stupito ed il divertito. E proseguì con il suo giro ai tavoli. Mi girai verso Emma nel medesimo istante in cui lei si voltò a guardarmi. Infine, scoppiammo a ridere. Fondamentale fu la spinta dell’alcolico assunto a stomaco vuoto, ma non aveva importanza.
“Povero Casey” esclamò lei divertita “avrà pensato che siamo due pazzi alcolizzati!”
E ci abbracciamo, sciogliendo definitivamente la tensione creatasi poco prima. Grazie, Casey, sei un grande!
Fu così che la nostra serata ripartì alla grande. Ordinammo la cena. Emma optò per un classicissimo Fish&Chips inglese con Weissbier, mentre io scelsi una ben più consistente bistecca di Angus con patate al forno. Per il bere, decisi di affidarmi ad una corposa birra belga di 8°, che pensai potesse ben legare con le calorie del mio piatto.
Ci godemmo il concerto, gustandoci la cena ed apprezzando le varie birre che l’accompagnarono.
Dopo un paio d’ore, eravamo entrambi su di giri, in particolare Emma, che decise di unirsi al discreto gruppetto di persone che presero ad occupare la spazio creatosi di fronte alla band, divenuto pista da ballo.
Declinai il suo invito a seguirla, preferendo rimanere al tavolo ad osservarla ed osservare lo spettacolo.
“Preferisco restare qui con la mia birra” le urlai, nel trambusto generale “e magari a farmi quattro risate guardandoti!”. E le risi in faccia divertito, ottenendo una simpatica gomitata ad un fianco, mentre si allontanò ridendo di me a sua volta.
Non poté scegliere un momento più opportuno per gettarsi nella mischia. La band attaccò con “You never can tell”, mandando in delirio il pubblico e spingendo le improvvisate coppie ballerini ad esibirsi come John Travolta ed Uma Thurman nel celebre “Pulp Fiction”. Stetti ad osservare mia figlia per tutta la durata della canzone, sfoggiando un sorrisetto ebete da padre fiero. O forse era solamente un semplice sorrisetto ebete.
“Non ci posso credere: Bobby?! Sei tu??” esclamò d’un tratto una voce alle mie spalle, in inglese.
“Charlie?! Sei proprio tu, cazzo! Come stai?!” risposi incredulo.
Charlie faceva parte del gruppo di ragazzi che frequentavo da adolescente. Stesso quartiere, stesso giro di persone, pressappoco stessa età. I differenti contesti della vita, ci portarono a prendere strade completamente differenti, o nel mio caso, paesi.
Chiacchierammo davanti ad una birra, l’ennesima della mia serata, rivangando il passato e raccontando il presente.
“…e quindi stasera ho deciso di tornare qui, dopo tanto tempo. Sono con Emma, mia figlia” dissi.
“E dove si trova ora?” chiese.
“Si è buttata in pista! La vedi? Vestitino marrone, cappelli castani…”.
“Penso di sì ma Bob, dovresti guardare anche tu… che cazzo sta facendo quello?” mi disse. Osservai il suo sguardo preoccupato
Mi voltai di scatto. Vidi Emma che tentava di divincolarsi dalla presa di un tizio. Questi la strattonava a sé, tenendola per un braccio. Era ben più grande di lei e sembrava divertirsi nel tormentarla.
La sensazione che provai in quel momento fu difficile da descrivere. Immaginate per un momento che l’afflusso di sangue al cervello si interrompesse, per deviare solamente verso gli arti superiori ed inferiori. Immaginate un improvviso calore a gambe e mani, e supponete di non avere la possibilità di poterle controllare. Fu una questione di pochi secondi. Il mio corpo saltò come una molla impazzita. Con la rapidità di un ghepardo, attraversai il locale e mi gettai letteralmente addosso a quel viscido individuo.
Emma
“Lasciami, stronzo! Mi fai male!” gli urlai, cercando di divincolarmi dalla sua presa. Era forte e parecchio alticcio, a giudicare dalla puzza di birra che mi arrivava ogniqualvolta lo vedevo espirare.
“Avanti, piccola, non fare la difficile!” esclamò, tentando di avvolgermi il braccio al collo. Mi abbassai per evitarlo, rifilandogli al contempo un calcio nel cavo popliteo. Lo sentii emettere un gemito.
“Puttana!” urlò. E mi strattonò nuovamente e con più veemenza. Una fitta di dolore raggiunse la mia scapola. E poi, d’un tratto, più nulla. Ero di nuovo libera. E lui a terra, sotterrato dal corpo di papà, che lo stava colpendo di santa ragione. Vidi un secondo tizio che tentava di fermarlo, chiamandolo per nome.
“Bobby! Basta, lascialo! Sei pazzo?!” gli gridava, invitandolo a rinunciare, che non valeva la pena, diceva. Mi resi conto di dover intervenire.
“Daddy! Daddy, basta, ti scongiuro! Andiamo via, ti prego!”
Mi ero frapposta tra lui e quel maniaco. Dio solo sa quando avrei voluto che gli cambiasse i connotati, ma a che pro? Per finire in guai giudiziari senza fine? No, non sarebbe andata così.
Il bastardo si era alzato nel frattempo. Perdeva sangue dal labbro inferiore, ma non sembrava minimamente provato o pentito. Anzi. Lo vidi rivolgere a mio padre uno sguardo provocatorio.
“Daddy! Ti prego, andiamocene…” lo supplicai nuovamente, con la testa appoggiata al suo petto.
“Ho intenzione di venire qui, domani sera! Se ti vedo ancora ronzare attorno a mia figlia, ti giuro, credi alle mie parole, finirai i tuoi giorni attaccato ad un tubo di plastica!”
“Basta, ho detto!”
E lo spinsi fuori dal locale.
Uscimmo in strada. La temperatura era scesa e l’aria si era fatta più frizzante. Un brivido di freddo mi percorse la schiena. Papà mi adagiò il suo maglioncino attorno alle spalle.
“Grazie…” gli dissi con voce flebile.
Percorremmo a piedi la via del ritorno, ognuno accompagnato dai proprio pensieri.
Mi resi conto di quanto quell’episodio mi avesse scossa, lo percepii maggiormente non appena entrai nella mia stanza, l’adrenalina stava diminuendo, lasciandomi in uno stato di disagio misto ad una lieve ansia.
Tolsi i sandali e mi sedetti sul letto, appoggiandomi alla testiera e raccogliendo le ginocchia. Rimasi lì, in silenzio, fino a quando udii bussare alla mia porta. Era papà. Entrò nella stanza, recando con sé una bottiglia e due bicchieri.
“Stai meglio?” mi chiese.
Annuii, non troppo convinta.
“Mi dispiace per quello che è successo stasera” fece nuovamente. “Quel viscido bastardo! Io… sono mortificato, cucciola mia”.
“Cos’hai lì?” fu la mia risposta, indicando la bottiglia.
“Ah, beh… forse non sarà l’ideale, ma ho pensato che potesse esserti d’aiuto…sì, per allentare la tensione. Lo so, non è il massimo un genitore che invita la figlia a farsi un goccio di questa roba e mi scuso, ma a volte funziona” mi rispose, con un’aria vagamente impacciata.
Bevemmo ben tre bicchieri di quello che scoprii essere un bourbon invecchiato.
“E’ la speciale riserva di tuo nonno. Se scopre che l’ho profanata…” e mi fece il gesto del tagliagole, assumendo una buffa espressione. Sorrisi. Aveva ragione, quei tre drink improvvisati mi avevano distesa. Forse un tantino troppo. Mi resi conto di essere un po’brilla.
“D’accordo, ora è meglio che vada a dormire. Cerca di riposare, piccola”.
“Daddy, aspetta!” esclamai, vedendo che si alzava.
Tornò a sedersi, guardandomi per capire il motivo per cui volevo trattenerlo.
“Grazie per stasera, Daddy!” gli dissi, accarezzandogli dolcemente i capelli. Mi stavo avvicinando a lui, mentre lo facevo. Uno sguardo ai suoi occhi, uno alle sue labbra, socchiuse, quasi in attesa. In attesa. Di che cosa? Forse delle mie? Osai sperare di sì e gliele appoggiai dolcemente alle sue. Ci perdemmo in un timido bacio. Dapprima indeciso, poi più convinto, finché non fu lui a fermarmi.
“No! Emma, scusami, non possiamo. Che stiamo facendo? Non credo sia il caso…”.
Mi lasciò le mani, si alzò e si diresse verso la porta, nonostante la mia delusione. Lo vidi aprire la porta ma fermarsi a metà. Per qualche secondo, rimase fermo a fissare il corridoio.
Fu questione di un attimo. Un attimo in cui lo vidi richiudere la porta e fare dietro front bruscamente, gettandosi tra le mia braccia per baciarmi nuovamente. Era tutta un’altra cosa. Sentivo la passione, il calore del suo corpo, il fervore della sua lingua che senza sosta danzava avvinghiata alla mia. Sembrava quasi che aprire quella porta per pochi istanti, gli avesse permesso di lasciare cadere ogni dubbio, accrescendo la passione che inevitabilmente stava covando da tempo.
“Che stiamo facendo?” mi chiese improvvisamente, tra un bacio e l’altro.
“Stiamo…facendo l’amore Daddy…” risposi.
“Non possiamo… perché? Perché lo stiamo facendo…?”
“Perché… ci amiamo! Io ti amo, Daddy!”
“Anch’io ti amo, cucciola mia!”
Sentii l’eccitazione crescermi dentro. Quelle parole quasi inaspettate, quelle mani forti che mi stringevano, quel sua bocca che prese ad occuparsi del mio collo. Un miriade di sensazioni fortissime, assolute. In breve, mi ritrovai bagnatissima. Speravo ci potessimo spostare ad un livello successivo.
Allungai la mano verso il suo basso ventre, carezzandogli il suo affare. Era rigidissimo. Lo vidi sussultare al mio tocco, al che pensai di continuare al fine di lanciargli ulteriori segnali. Funzionò alla grande. Papà mi sollevò come quando ero una bambina, e come allora, mi mise sulle sue ginocchia. Chiaramente, ora la motivazione era un’altra. Abbassò la zip del mio abito e lo fece volare via, e con esso anche le mie mutandine di pizzo nero. Io feci lo stesso con la sua camicia. Mi acquattai sul pavimento per sfilargli i jeans. Passai poi a boxer neri, usando modi nettamente più accattivanti rispetto al resto. Il suo membro si palesò davanti a me, in tutta la sua rigidità. Senza indugio, lo presi in bocca ed iniziai a succhiarlo con dei movimenti lenti e costanti. Capii di aver centrato la giusta velocità sentendo i versi di approvazione del mio Daddy, il quale, in un momento di estrema libidine, mi ordinò letteralmente di non fermarmi. Poggiò le sue mani sulla mia testa, spingendola con foga verso la sua ‘mazza’ e la cosa mi fece eccitare ancora di più.
Mi fermai in tempo per potermi sedere sopra di lui. Nel momento in cui entrò, un brivido di piacere mi percorse il corpo dalla testa alle dita dei piedi, che da qualche minuto si inarcavano e si stendevano come se non vi fosse un domani. Mi muovevo con decisione, alternando diversi movimenti delle anche, per trovare il giusto ritmo. Rovesciai la testa all’indietro nel percepire la sua bocca sul mio seno, avida dei miei capezzoli, che ricopriva di succhiotti e piccoli morsi. Sapeva decisamente quali corde toccare. Ero in balia di quel godimento quando mi trovai all’istante sdraiata supina sul mio letto. La musica cambiò completamente. Il dolce e ritmico movimento di poco prima, venne sostituito da uno ben più incalzante e violento. E mi piacque molto, ma molto di più. Mi ero resa conto negli anni di avere quella particolare tendenza ad elettrizzarmi sessualmente quando venivo sottomessa, o semplicemente non ero la parte dominante. Incrociai le gambe alla sua schiena e venni, gridando quel tanto che mi era consentito.
Giungemmo assieme all’orgasmo, stringendoci a vicenda nel momento clou, finché, ansimanti e con il cuore a mille, iniziammo la nostra discesa verso un completo assestamento. Ci godemmo quel momento di relax completamente abbracciati. Non passò molto, che il sonno ebbe il sopravvento. Mi addormentai, come da bambina, tra le braccia di papà. Del mio Daddy.
Bob
La suoneria del cellulare mi aveva svegliato all’una. Era Vanessa. Un orario insolito per scrivermi.
Mi ero addormentato con Emma. Avevamo fatto l’amore ed era stato incredibile, estremo, bellissimo. Eticamente inconcepibile, certo, ma in quel frangente non mi ero posto il problema.
Scambiai quale messaggino con mia moglie, augurandole infine la buonanotte.
Fu nel momento in cui riposi il telefono che avvertii un crescente senso di colpa per quel che avevo fatto.
Fu come averla tradita ma ben più grave, perché l’altra donna era…sua figlia, nostra figlia. Erano le mie donne e le amavo entrambe alla follia.
Guardai la mia Emma dormire beatamente. Chissà quali pensieri si alternavano dentro di lei. Mi domandavo cosa provasse. Anche lei si sentiva in colpa? L’avrei svegliata per chiederglielo. Averne avuto la conferma, forse, avrebbe alleviato il mio peso.
Ritenni di doverci dormire sopra. La mattina dopo avremmo parlato, avrei capito il suo punto di vista.
Me ne andai di soppiatto, non prima di averla guardata un’ultima volta.
“Sogni d’oro, angelo mio” le sussurrai, rimboccandole le coperte.
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