I racconti di Terry 3) Il fotografo
Scritto da zorrogatto, il 2021-02-04, genere tradimenti
Io e mio marito, avevamo fatto amicizia con Mauro, nei primi anni 80.
Mauro era un bell’uomo di poco più di quarant’anni –a fronte dei nostri che non arrivavano a trenta- abbronzatissimo, atletico, affascinante e con un gran cazzo col quale mi scopava con passione.
Ho davvero dei bei ricordi, anche se son passati circa trentacinque anni, sul com’era il far sesso con Mauro.
Mario, mio marito, a volte partecipava, ma altre volte magari si era fatto bastare la mia dettagliata narrazione sul cosa e dove avevamo fatto insieme.
Con Mauro-il-pittore è stata la prima volta che mi lasciava andare, senza voler essere presente ed io mi divertivo a fare questo gioco («Un gioco ha un inizio ed una fine e regole precedentemente accettate da tutti i partecipanti maggiorenni e consenzienti!» Questo è il credo di Mario che condivido e condividevo quando FACEVO la troietta, ma solo per gioco; alla fine tornavo la persona seria che tutti conoscevano ed apprezzavano nella mia vita normale).
Però il Pittore era un vero amico e non ci vedevamo solo per scopare, ma anche per fare qualche gita o uscire la sera ed andare per locali.
Una sera ci fece conoscere un locale nella parte più antica della città e ce ne innamorammo a prima vista: un antro con le volte di pietra a vista e non troppo illuminato, con tavoli e sedie che facevano pensare ad una taverna da pirati e degli strumenti musicali (chitarra, basso, batteria, pianoforte) a disposizione di chi avesse voglia di suonare.
Su quel pianoforte strimpellava anche un giovanotto che, col tempo, è diventato un cantautore famoso.
Il locale ci piaceva molto, come ci piaceva la sua aria “alternativa”, uno strascico forse dei ’70 ideologizzati ed un baluardo contro lo yuppismo arrembante.
Cominciammo a frequentarlo anche senza Mauro, che abitava in una cittadina della provincia accanto e, a maggior ragione, anche quando dovette trasferirsi per lavoro all’estero per un certo tempo.
Visto che siamo persone normalmente socievoli, in questo locale avevamo instaurato cordiali rapporti con molti degli abituali frequentatori e grande fu il successo che riscossi, la prima volta che arrivai con la mia mitica tutina bianca.
Con mio marito, giorni prima avevamo fatto un giro tra le bancarelle di una sagra, e lui aveva visto una tuta per me: una tuta “da meccanico” chiusa con una lampo dall’inguine al collo, con due tasche sui fianchi, due taschini chiusi da piccole zip dorate proprio sopra i seni e di cotone bianco, leggero!
La provai dietro una tenda della bancarella e mi calzava alla perfezione ed anche mio marito disse che mi stava benissimo, anche se io, nel piccolo specchio, vedevo che la mia pelle abbronzata traspariva dal leggero tessuto ed ero lieta che la stoffa dei taschini celasse i capezzolini.
Mauro me la regalò, tutto contento e quando fummo a casa pretese che la indossassi subito per valutarmela con calma davanti al grande specchio di casa.
Oddio… Sì, mi stava bene, niente da dire, ma il cotone era così leggero che trasparivano elastici e colore delle mutandine!
«Eh sì… –commentò divertito ed eccitato mio marito-… ti toccherà indossarla senza nient’altro sotto…»
Dovetti abituarmi all’idea –ed ovviamente escludere di indossarla di giorno o comunque in situazioni “normali”!- ma poi venne la sera che trovai abbastanza coraggio da indossarla per andare alla Taverna.
Ebbi grande successo tra i maschietti, soprattutto perché la tutina delineava nitidamente le mie chiappine e sul davanti traspariva chiaramente il triangolo nero del mio curato boschetto pubico (all’epoca non usava depilarla: le più… coraggiose, lasciavano una strisciolina di pelo), visione che intrigò molti, tra cui anche Dado-il-fotografo, che conoscevamo da un po’ e che mi corteggiava blandamente da sempre.
Dado era un personaggio: poco più grande di noi, fisico magro, nervoso, aria da zingaro, era un contaballe incredibile: diceva di essere ungherese e di etnia Rom, anche se in realtà era nato in Sardegna e raccontava così tante frottole che, come diceva Mauro, sorridendo: «… se ti dice “c’è il sole”, non fidarti e metti la testa fuori: ti racconta balle anche se gli chiedi “che ora è?”»
Però era divertente: noi facevamo finta di credere alle sue mirabolanti avventure e lui faceva finta di credere che noi gli credessimo.
Ma quando cominciai a frequentare la Taverna con la tutina, decise che dovevo essere sua e quindi cominciò a corteggiarmi sempre più dappresso.
Mauro, da parte sua, amava recitare la parte del marito un po’ tonto e, in ultima analisi, ci divertivamo un mondo a giocare così.
L’unica cosa su cui Dado non mentiva, era che davvero si guadagnava pane e companatico con la macchina fotografica ed una sera portò giusto la conversazione sul suo lavoro ed alla fine, come mio marito aveva previsto –avendogli detto che anche lui si diletta in fotografia- ci invitò a vedere i suoi lavori nel suo “atelier”, ricavato nell’appartamento dove viveva.
Lui era convinto di aver manovrato con grande astuzia, ma noi ci scambiammo un’occhiata ironica e lo lasciammo condurre la sua partita.
Quando lasciammo il locale –la “tana” di Dado nei vicoletti della città medievale era a meno di un chilometro- Mauro non mi prese a braccetto o per mano e il fotografo, mentre si infervorava a illustrare il suo lavoro, si era messo in mezzo tra noi e dopo un po’, pensando che mio marito non si rendesse conto, mi prese per mano e me la strinse, complice; ricambiai sorridendo.
Arrivati all’antico palazzo dove abitava, mandò Mauro su per la stretta, ripida scala di ardesia ed io dietro, mentre lui ci seguiva e nel frattempo mi accarezzava il culetto e infilandomi le dita tese di taglio tra la parte superiore delle cosce per farmi tenere le ginocchia più larghe e per stuzzicarmi piacevolmente le labbrine da sopra al leggero tessuto.
L’appartamento era stato ricavato nell’ala per la servitù di un antico palazzo nobiliare e si sviluppava su due piani: in quello inferiore il soggiorno, il cucinino ed il bagno, che era tagliato da una tramezza oltre il quale aveva ricavato la camera oscura e, accanto, un’ampia sala usata come studio di ripresa e come ufficietto, in un angolo.
Dado ci mostrò rapidamente gli ambienti e poi estrasse da uno scaffale un grosso album e lo porse a Mario, invitandolo a guardarsi le sue foto con calma, seduto sul divano, mentre lui mi mostrava il resto dell’appartamento.
Un’altra stretta e ripida scala coi gradini d’ardesia portava al piano superiore dove, in cima alla scala, c’era la camera da letto e un’altra porta che però rimase chiusa.
Dado accostò la porta della camera e cominciò ad abbracciarmi, a baciarmi, ad armeggiare con la lampo della tutina per togliermela.
Assecondai le sue voglie, certificate anche da una notevole erezione e sgusciai fuori da quella cotonina il più in fretta possibile.
Poi cademmo sul letto e cominciammo a “giocare”.
Mario mi aveva raccontato poi che si era sentito un po’ stupido, una sorta di “bimbo scemo”, ad essere messo a sedere sul divano col librone delle foto di Dado che gli pesava sulle ginocchia: sapeva benissimo cosa stava per succedere, ma stava cercando di decidere se partecipare anche lui, se assistere da una parte a cosa avremmo fatto il ed il fotografo o se, invece, recitare la parte del cornuto totale e tonto, che non si rendeva neanche conto di quanto sua moglie fosse troia a darla in giro a pioggia.
Vista anche la sicumera del fotografo, valutò che quest’ultimo atteggiamento fosse quello che più lo divertisse e quindi cominciò a commentare entusiasticamente le foto, tenendo impigliato Dado accanto al divano.
Lui, smaniava, con la insopprimibile voglia di mostrare alla “moglie troia di quel deficiente” il resto dell’appartamento, tanto che alla fine sbottò, prendendo un altro album: «Quando hai finito di guardare quelle, anche queste sono bellissime e poi, uhm… anche questi album, in questo scaffale…»
Mario si divertiva troppo a recitare la parte del marito babbeo e lo rassicurò che le avrebbe studiate tutte con attenzione «… anche perché, se non sfrutto le occasioni per imparare qualcosa dai VERI fotografi…», assicurò con un sorriso da pecora.
Mi scappava da ridere: le poche foto che avevo visto di Dado erano indubbiamente belle, ma quelle di mio marito, un metalmeccanico con la passione della fotografia da sempre, sicuramente non sfiguravano al confronto; eppure Mario si divertiva a lusingare il giovane, che gongolava dell’apprezzamento di quello scemo a cui stava per scopare la moglie.
Comunque, Mario sfogliò realmente una parte dell’album di foto –sentendosi comunque un po’ scemo- prima di alzarsi e salire silenziosamente le scale –quanto sanno muoversi silenziosamente, le persone di grossa taglia!- e poi spiarci dai pochi centimetri che la porta accostata gli lasciava.
Mi vide inginocchiata sul letto, mentre stavo succhiando il fotografo prima di farmi penetrare, lasciandomi frugare dalla mano curiosa dell’uomo col culetto girato verso la porta.
Poi vide che mi tiravo su e che mi andavo ad impalare sulla spasmodica erezione e che me lo facevo scivolare dentro.
Mi rendevo conto che eravamo stati in camera per un bel pezzo –Dado aveva una eccellente resistenza e potenti appetiti!- e mi chiedevo pigramente come Mario avrebbe potuto sostenere il suo ruolo da marito-tontolone: forse lo avremmo trovato circondato da album di fotografie, mentre fingeva di aver passato ben più di un’ora a studiare foto?
No: quando aveva capito che avevamo finito di “giocare”, era silenziosamente sceso in soggiorno, aveva messo da parte il primo album e se ne era aperto un altro a caso sulle ginocchia e poi… aveva fatto finta di essersi addormentato!
Quando scendemmo al piano inferiore, fece finta di svegliarsi e di essere imbarazzato per essersi appisolato mentre stava contemplando i lavori dell’amico, ma Dado magnanimamente gli disse che poteva starci se, come gli avevamo detto, aveva fatto il turno in fabbrica.
Mario interpretava con estrema credibilità la parte di quello che sta crollando di stanchezza e quindi lasciammo rapidamente la casa del fotografo, ridacchiando per tutto il percorso fino alla nostra auto, per poi andare a casa a concludere la giornata facendo gioiosamente l’amore tra noi.
Mauro era un bell’uomo di poco più di quarant’anni –a fronte dei nostri che non arrivavano a trenta- abbronzatissimo, atletico, affascinante e con un gran cazzo col quale mi scopava con passione.
Ho davvero dei bei ricordi, anche se son passati circa trentacinque anni, sul com’era il far sesso con Mauro.
Mario, mio marito, a volte partecipava, ma altre volte magari si era fatto bastare la mia dettagliata narrazione sul cosa e dove avevamo fatto insieme.
Con Mauro-il-pittore è stata la prima volta che mi lasciava andare, senza voler essere presente ed io mi divertivo a fare questo gioco («Un gioco ha un inizio ed una fine e regole precedentemente accettate da tutti i partecipanti maggiorenni e consenzienti!» Questo è il credo di Mario che condivido e condividevo quando FACEVO la troietta, ma solo per gioco; alla fine tornavo la persona seria che tutti conoscevano ed apprezzavano nella mia vita normale).
Però il Pittore era un vero amico e non ci vedevamo solo per scopare, ma anche per fare qualche gita o uscire la sera ed andare per locali.
Una sera ci fece conoscere un locale nella parte più antica della città e ce ne innamorammo a prima vista: un antro con le volte di pietra a vista e non troppo illuminato, con tavoli e sedie che facevano pensare ad una taverna da pirati e degli strumenti musicali (chitarra, basso, batteria, pianoforte) a disposizione di chi avesse voglia di suonare.
Su quel pianoforte strimpellava anche un giovanotto che, col tempo, è diventato un cantautore famoso.
Il locale ci piaceva molto, come ci piaceva la sua aria “alternativa”, uno strascico forse dei ’70 ideologizzati ed un baluardo contro lo yuppismo arrembante.
Cominciammo a frequentarlo anche senza Mauro, che abitava in una cittadina della provincia accanto e, a maggior ragione, anche quando dovette trasferirsi per lavoro all’estero per un certo tempo.
Visto che siamo persone normalmente socievoli, in questo locale avevamo instaurato cordiali rapporti con molti degli abituali frequentatori e grande fu il successo che riscossi, la prima volta che arrivai con la mia mitica tutina bianca.
Con mio marito, giorni prima avevamo fatto un giro tra le bancarelle di una sagra, e lui aveva visto una tuta per me: una tuta “da meccanico” chiusa con una lampo dall’inguine al collo, con due tasche sui fianchi, due taschini chiusi da piccole zip dorate proprio sopra i seni e di cotone bianco, leggero!
La provai dietro una tenda della bancarella e mi calzava alla perfezione ed anche mio marito disse che mi stava benissimo, anche se io, nel piccolo specchio, vedevo che la mia pelle abbronzata traspariva dal leggero tessuto ed ero lieta che la stoffa dei taschini celasse i capezzolini.
Mauro me la regalò, tutto contento e quando fummo a casa pretese che la indossassi subito per valutarmela con calma davanti al grande specchio di casa.
Oddio… Sì, mi stava bene, niente da dire, ma il cotone era così leggero che trasparivano elastici e colore delle mutandine!
«Eh sì… –commentò divertito ed eccitato mio marito-… ti toccherà indossarla senza nient’altro sotto…»
Dovetti abituarmi all’idea –ed ovviamente escludere di indossarla di giorno o comunque in situazioni “normali”!- ma poi venne la sera che trovai abbastanza coraggio da indossarla per andare alla Taverna.
Ebbi grande successo tra i maschietti, soprattutto perché la tutina delineava nitidamente le mie chiappine e sul davanti traspariva chiaramente il triangolo nero del mio curato boschetto pubico (all’epoca non usava depilarla: le più… coraggiose, lasciavano una strisciolina di pelo), visione che intrigò molti, tra cui anche Dado-il-fotografo, che conoscevamo da un po’ e che mi corteggiava blandamente da sempre.
Dado era un personaggio: poco più grande di noi, fisico magro, nervoso, aria da zingaro, era un contaballe incredibile: diceva di essere ungherese e di etnia Rom, anche se in realtà era nato in Sardegna e raccontava così tante frottole che, come diceva Mauro, sorridendo: «… se ti dice “c’è il sole”, non fidarti e metti la testa fuori: ti racconta balle anche se gli chiedi “che ora è?”»
Però era divertente: noi facevamo finta di credere alle sue mirabolanti avventure e lui faceva finta di credere che noi gli credessimo.
Ma quando cominciai a frequentare la Taverna con la tutina, decise che dovevo essere sua e quindi cominciò a corteggiarmi sempre più dappresso.
Mauro, da parte sua, amava recitare la parte del marito un po’ tonto e, in ultima analisi, ci divertivamo un mondo a giocare così.
L’unica cosa su cui Dado non mentiva, era che davvero si guadagnava pane e companatico con la macchina fotografica ed una sera portò giusto la conversazione sul suo lavoro ed alla fine, come mio marito aveva previsto –avendogli detto che anche lui si diletta in fotografia- ci invitò a vedere i suoi lavori nel suo “atelier”, ricavato nell’appartamento dove viveva.
Lui era convinto di aver manovrato con grande astuzia, ma noi ci scambiammo un’occhiata ironica e lo lasciammo condurre la sua partita.
Quando lasciammo il locale –la “tana” di Dado nei vicoletti della città medievale era a meno di un chilometro- Mauro non mi prese a braccetto o per mano e il fotografo, mentre si infervorava a illustrare il suo lavoro, si era messo in mezzo tra noi e dopo un po’, pensando che mio marito non si rendesse conto, mi prese per mano e me la strinse, complice; ricambiai sorridendo.
Arrivati all’antico palazzo dove abitava, mandò Mauro su per la stretta, ripida scala di ardesia ed io dietro, mentre lui ci seguiva e nel frattempo mi accarezzava il culetto e infilandomi le dita tese di taglio tra la parte superiore delle cosce per farmi tenere le ginocchia più larghe e per stuzzicarmi piacevolmente le labbrine da sopra al leggero tessuto.
L’appartamento era stato ricavato nell’ala per la servitù di un antico palazzo nobiliare e si sviluppava su due piani: in quello inferiore il soggiorno, il cucinino ed il bagno, che era tagliato da una tramezza oltre il quale aveva ricavato la camera oscura e, accanto, un’ampia sala usata come studio di ripresa e come ufficietto, in un angolo.
Dado ci mostrò rapidamente gli ambienti e poi estrasse da uno scaffale un grosso album e lo porse a Mario, invitandolo a guardarsi le sue foto con calma, seduto sul divano, mentre lui mi mostrava il resto dell’appartamento.
Un’altra stretta e ripida scala coi gradini d’ardesia portava al piano superiore dove, in cima alla scala, c’era la camera da letto e un’altra porta che però rimase chiusa.
Dado accostò la porta della camera e cominciò ad abbracciarmi, a baciarmi, ad armeggiare con la lampo della tutina per togliermela.
Assecondai le sue voglie, certificate anche da una notevole erezione e sgusciai fuori da quella cotonina il più in fretta possibile.
Poi cademmo sul letto e cominciammo a “giocare”.
Mario mi aveva raccontato poi che si era sentito un po’ stupido, una sorta di “bimbo scemo”, ad essere messo a sedere sul divano col librone delle foto di Dado che gli pesava sulle ginocchia: sapeva benissimo cosa stava per succedere, ma stava cercando di decidere se partecipare anche lui, se assistere da una parte a cosa avremmo fatto il ed il fotografo o se, invece, recitare la parte del cornuto totale e tonto, che non si rendeva neanche conto di quanto sua moglie fosse troia a darla in giro a pioggia.
Vista anche la sicumera del fotografo, valutò che quest’ultimo atteggiamento fosse quello che più lo divertisse e quindi cominciò a commentare entusiasticamente le foto, tenendo impigliato Dado accanto al divano.
Lui, smaniava, con la insopprimibile voglia di mostrare alla “moglie troia di quel deficiente” il resto dell’appartamento, tanto che alla fine sbottò, prendendo un altro album: «Quando hai finito di guardare quelle, anche queste sono bellissime e poi, uhm… anche questi album, in questo scaffale…»
Mario si divertiva troppo a recitare la parte del marito babbeo e lo rassicurò che le avrebbe studiate tutte con attenzione «… anche perché, se non sfrutto le occasioni per imparare qualcosa dai VERI fotografi…», assicurò con un sorriso da pecora.
Mi scappava da ridere: le poche foto che avevo visto di Dado erano indubbiamente belle, ma quelle di mio marito, un metalmeccanico con la passione della fotografia da sempre, sicuramente non sfiguravano al confronto; eppure Mario si divertiva a lusingare il giovane, che gongolava dell’apprezzamento di quello scemo a cui stava per scopare la moglie.
Comunque, Mario sfogliò realmente una parte dell’album di foto –sentendosi comunque un po’ scemo- prima di alzarsi e salire silenziosamente le scale –quanto sanno muoversi silenziosamente, le persone di grossa taglia!- e poi spiarci dai pochi centimetri che la porta accostata gli lasciava.
Mi vide inginocchiata sul letto, mentre stavo succhiando il fotografo prima di farmi penetrare, lasciandomi frugare dalla mano curiosa dell’uomo col culetto girato verso la porta.
Poi vide che mi tiravo su e che mi andavo ad impalare sulla spasmodica erezione e che me lo facevo scivolare dentro.
Mi rendevo conto che eravamo stati in camera per un bel pezzo –Dado aveva una eccellente resistenza e potenti appetiti!- e mi chiedevo pigramente come Mario avrebbe potuto sostenere il suo ruolo da marito-tontolone: forse lo avremmo trovato circondato da album di fotografie, mentre fingeva di aver passato ben più di un’ora a studiare foto?
No: quando aveva capito che avevamo finito di “giocare”, era silenziosamente sceso in soggiorno, aveva messo da parte il primo album e se ne era aperto un altro a caso sulle ginocchia e poi… aveva fatto finta di essersi addormentato!
Quando scendemmo al piano inferiore, fece finta di svegliarsi e di essere imbarazzato per essersi appisolato mentre stava contemplando i lavori dell’amico, ma Dado magnanimamente gli disse che poteva starci se, come gli avevamo detto, aveva fatto il turno in fabbrica.
Mario interpretava con estrema credibilità la parte di quello che sta crollando di stanchezza e quindi lasciammo rapidamente la casa del fotografo, ridacchiando per tutto il percorso fino alla nostra auto, per poi andare a casa a concludere la giornata facendo gioiosamente l’amore tra noi.
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